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Mai sentito parlare del Principio di Peter?

«In una organizzazione gerarchica ogni lavoratore viene promosso finché non raggiunge il suo livello di massima incompetenza». Così afferma il tanto vociferato principio di Peter formulato nel 1968 dall'omonimo studioso canadese forse per ironia o forse perché intimamente persuaso della sua validità.

Alla base, l'idea che la tendenza a promuovere chi abbia dimostrato un particolare merito nell'esercizio del proprio ruolo non faccia che esporre l'organizzazione a un duplice rischio, tanto banale quanto dannoso.  

Essa potrebbe infatti avere più di una difficoltà nell'individuare con prontezza una persona altrettanto abile nell'esercizio del ruolo lasciato vacante, come scoprire che il neo-promosso, almeno nell'immediato, si dimostra inadatto a ricoprire il ruolo assunto.

La posizione in cui subentra potrebbe richiedere capacità radicalmente diverse da quelle sviluppate in precedenza: in altre parole, non è affatto detto che ci sia continuità tra i livelli adiacenti di un'organizzazione gerarchica.

Il rischio è allora quello di perdere più di una competenza sicura ed accertata per ottenere in cambio possibili ed eventuali competenze attese, eppure fino a prova contraria incerte. Si scommette sul futuro, senza una chiara previsione circa le sue probabilità di realizzazione.

 

UNA REALTÁ CALEIDOSCOPICA

Come per le macchie di Rorshach, il famoso psichiatra che ha ideato figure dotate di un significato diverso per ogni soggetto, si tratta anche di una questione di metodo, e difatti il quesito implicitamente impone di riconsiderare se modelli di valutazione basati sulla considerazione di elementi, come le credenziali personali o le prestazioni passate, siano adatti a formulare ipotesi verosimili e predittive per il futuro, dal momento che non vi è una base empirica a corroborarle.

In assenza di dati specifici, valutazioni di questo tipo si fondano in ultima analisi sulla possibilità di dedurre l’idoneità a ricoprire il ruolo a partire da elementi passati, come, ad esempio, l’affidabilità, la continuità, l’orientamento agli obiettivi o la velocità di apprendimento.

Oltre a non considerare tutte le variabili intrinseche al cambiamento, tali previsioni potrebbero risentire tanto dell’influenza esercitata da elementi di tipo personale quali la stima, la simpatia o la fiducia riposte nel collaboratore, quanto protrarre in eterno determinati pregiudizi positivi, mai più verificati.

Ma come determinare il margine di errore e di previsione insito in tale metodo di valutazione? Come circoscrivere il Principio di Peter o quantificare numericamente la conseguente perdita di efficienza di un’organizzazione?

 

PROIEZIONE DI SCENARI POSSIBILI

La risposta è data dall’analisi della probabilità: se non si riesce a entrare nel merito delle scelte puramente soggettive, né si giudica conclusivo soffermarcisi a lungo, bisogna sviluppare modelli matematici, capaci di restituire proiezioni statistiche, in base a cui confrontare i diversi scenari prodotti dalle diverse strategie adottate dalle organizzazioni in materia di promozione del personale.

Proprio il Principio di Peter è stato recentemente rivisitato ad opera dei fisici Pluchino, Rapisarda e del sociologo Garofalo che, secondo tale logica, hanno condotto di un’indagine statistica, rigorosa e sistematica.

Riformulando il noto paradosso, gli studiosi si chiedono se la promozione, sulla base del merito, di un lavoratore a un grado di responsabilità maggiore influisca sempre positivamente sull’efficienza complessiva dell’organizzazione.

In generale il principio viene ribadito, ma emergono diverse condizioni attenuanti, entro le quali soltanto può dirsi verificato e potenzialmente predittivo il Principio di Peter così che l’assioma da questi enunciato potrebbe essere riformulato come segue:

L’ipotesi vale in organizzazioni gerarchiche in cui le competenze corrispondenti ai diversi gradi dell’organigramma sono in parte o del tutto diverse tra loro; non si applica una completa trasmissione delle competenze tra gradi adiacenti o verifica adeguatamente l’esito dei percorsi di apprendimento e di formazione.

 

DEFICIT DI FORMAZIONE

Si arriva così al nocciolo: se «in una organizzazione gerarchica ogni collaboratore viene promosso finché non raggiunge il suo livello di massima incompetenza» è perché la promozione è il frutto di una strategia meritocratica fragile e incapace di incanalare il talento in modo proficuo. L’incompetenza non è altro che un deficit di formazione.

È vero che l’adozione di un sistema di promozione meritocratico inefficiente spesso è la conseguenza della mancanza di risorse. Il budget non consente di aprire una selezione esterna per l’attribuzione dei ruoli strategici: perciò si attuano promozioni interne, anche in assenza di uno specifico percorso di formazione e di accompagnamento al ruolo.

Altre volte, invece, l’adozione di un sistema meritocratico è consapevole: si crede di aumentare l’efficienza dei lavoratori, mentre più facilmente si ottiene un incremento dei livelli di stress e di competitività; circostanza che disincentiva in maniera involontaria la collaborazione interna tra i membri dell’organizzazione e la disponibilità di ognuno a prestare parte del proprio tempo per la formazione e lo scambio di conoscenza reciproco.

Il punto è chiaro, se non si investe sulla formazione, ogni applicazione della meritocrazia in materia di promozione si rivela ingenua: da un lato nasconde l’impossibilità di selezionare personale esterno maggiormente qualificato; dall’altro per sua natura ostacola un clima di condivisione e di trasmissione della conoscenza, dunque la possibilità di ampliare il bagaglio di esperienza di ognuno e di sviluppare le competenze acquisite attraverso il confronto con fonti di sapere estranee al contesto usuale.

 

Articolo a cura di Giada Attianese per Scuola di Impresa Sociale.

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